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La settimana scorsa un vecchio cliente entra in negozio per vedere cosa è arrivato di nuovo. La contabile lo avvisa che i mobili di un contratto precedente sono già pronti dicendogli “Sig. Mosquero, il suo contratto è pronto”. Lui le risponde stizzito “No, io non sono il Sig. Mosquero, io sono il Dottor Mosquero“.

L’Ecuador è un Paese profondamente classista. Classista a livelli che noi in Italia non ci immagineremmo mai. La società è rigidamente divisa in categorie prima di tutto etniche, e poi economiche. In cima ad ogni gerarchia ci sono i bianchi. Specie se sono stranieri! Qualsiasi attività commerciale gestita da stranieri avrà tendenzialmente più successo della stessa attività gestita da Ecuadoriani. Chiaramente per stranieri intendo Europei, Statunitensi e Canadesi, che sono sinonimo di qualità ed affidabilità. Gli Ecuadoriani non si fidano dei propri concittadini, specie se appartengono a categorie diverse.

In fondo a tutto, ci sono gli indigeni, che si compongono in diverse famiglie. Al nord ci sono gli Otavaleños, che sono diversi sia dai Saraguro che vivono nel sud, che dagli indigeni della costa che da quelli della sierra. Non sono diversi solo fisicamente, ma anche e soprattutto culturalmente. Gli indigeni serrani, a differenza di tutti gli altri, vivevano di agricoltura e pascolo nelle ricche valli del centro dell’Ecuador. L’arrivo degli Spagnoli li costrinse a rifugiarsi sulle alte vette delle Ande, e ad abituarsi a condizioni climatiche estreme al limite della sopravvivenza. Sono malinconici e taciturni e famosissimi per la loro epocale testardaggine! Abituati ai ritmi della natura e alla vita con gli animali (proprio con gli animali, nel senso che ci dormono proprio insieme!) difficilmente si adattano alla vita urbana e al lavoro cittadino. Perciò quelli che emigrano verso la città in cerca di migliori condizioni di vita, finiscono quasi sempre a delinquere, o a vendere per strada caramelle e giornali con i bambini più piccoli caricati in spalla e quelli più grandi a pulire le scarpe dei passanti fino a tarda notte.

Com’è comprensibile, gli indigeni covano una profonda diffidenza verso i bianchi, visti come padroni e colonizzatori. Questo aspetto trova un preciso riflesso nella lingua: quando vi rivolgete a un ecuadoriano, lui vi risponderà “Mande?” e cioè, “Comandi?”. Se gli dite qualcosa, qualsiasi cosa, vi dirà “A la orden!” cioè “Agli ordini”. Inoltre, in Ecuador il termine “sgridare” che in spagnolo si traduce con “regañar”, si indica con la parola “hablar” e cioè “parlare”. Questo perché l’unico momento in cui i bianchi Spagnoli prima e quelli Ecuadoriani poi rivolgevano la parola ai dipendenti indigeni, era solo per sgridarli, e perciò le due parole, sono confluite in un significato solo! Era infine inconcepibile che un indigeno rispondesse di no a un bianco, quindi ancora oggi, qualsiasi sia la domanda, l’indigeno ecuadoriano vi risponderà sì. Per questo la parola, o la promessa di una persona non ha alcun significato qui, e non ci si può fidare troppo.

Come potrete capire, lavorare con un Ecuadoriano indigeno diventa quindi davvero complicato, perché non si riesce mai a portare a termine un lavoro! Non ci si può affidare alla “professionalità” del collega ma neppure si può palesemente dubitare delle sue capacità lavorative. Ciò ha creato un terreno particolarmente fertile al rafforzamento di un razzismo latente pre-eistente che si è colorato di nuove connotazioni più moderne e complesse, e che impedisce sistematicamente agli indigeni l’accesso ai lavori più qualificati o di responsabilità. 

Ma la cosa che più mi colpisce delle relazioni con gli indigeni, sono codici comunicazionali particolarmente rigidi! Se ho bisogno che la mia collega indigena faccia qualcosa, e glielo dico semplicemente, non funziona. E’ come se non le rivolgessi la parola. La reazione indigena ad anni di sottomissione, è la pretesa di questi codici, senza i quali è impossibile qualsiasi tipo di comunicazione. Così, per farmi ascoltare da lei, sono obbligata a recitare questa farsa tutta ecuadoriana: prima di tutto devo fare una faccina sofferente. Poi, devo dirle in tono piagnucoloso “Por favor, no seas malita…” e cioè “Per favore, non essere cattivella…”, e solamente dopo, posso chiederle davvero quello che mi serve!